Gli Stella Diana crescono. E cambiano. Nelle canzoni di “41 61 93” c’è meno voglia di menare le mani. Sono andate via molte delle loro distorsioni grosse e roboanti, di quelle che lasciano per giorni una bava di caos nei timpani. Decisivo in questo senso è il ruolo di Dario Torre, che oggi canta con più convinzione rispetto al passato. Se prima la voce sembrava l’ultimo – ottimo – elemento che chiudeva un meccanismo perfetto, stavolta tutto parte proprio dal microfono. E solo dopo viene il resto.
Sia chiaro. Chi ha amato il precedente “Gemini” può stare tranquillo. L’anima è sempre shoegaze. Un genere che gli Stella Diana conoscono e riproducono meglio di chiunque altro in Italia. Il nuovo spettacolo – davvero bello – allestito dal quintetto campano però sa più di post punk e cantautori che di pedali fuzz e rumori. Ciò che rimane immutato nella poetica della band è il desiderio di raccontare l’essere umano attraverso storie di persone e personaggi. C’è per esempio “Edward Teach”, il vecchio pirata Barbanera: per lui una psichedelia ossessiva che rimanda ai Cure totali di “Disintegration”. Oppure c’è “Dale Cooper”, un omaggio scuro che piacerà a chi ha smarrito una scheggia di sé nel finale interrotto di “Twin Peaks”.
“Navarre” è come ascoltare i Diaframma alle prese con un brano a metà tra grunge e post rock. Note aggressive suonate al rallentatore, una robusta dose di delay che amplifica gli spazi e una coda straordinaria per intensità, visione e impatto. Nel mezzo, un sax che è delizia e struggimento. Roba che meriterrebbe un intero disco a parte e tanti saluti. E poi c’è “22-2-87”. Sai quando il giorno nasce sbagliato e non promette nulla di buono? Ecco, questa canzone ti accoglie nei momenti peggiori e ti ripara da tutto. Forse anche da te stesso.